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Il caso di Susana Mc Kena, impiegata a contratto per molti anni presso le Scuole Italiane di Buenos Aires che sta chiedendo la revisione delle decisioni della Pubblica Amministrazione che le ha negato il riconoscimento dei diritti giuridici e professionali causandole notevoli danni. Susana Mc Kena ha ottenuto la cittadinanza italiana nel 2001 grazie ad una norma esplicitamente prevista nella nostra legge sulla cittadinanza, (in base all’art. 9, comma 1, lettera c) della legge 5.2.1992, n. 91 e dell’art. 7, della legge 18.5.1973, n. 282). Il problema è che l'ha ottenuta dopo otto anni di complicazioni che le hanno negato la possibilità di svolgere la sua carriera di insegnante a cui aveva diritto. Ed anche dopo che il Presidente della Repubblica, il 19 gennaio del 2001, la ha riconosciuta cittadina italiana a tutti gli effetti proprio per il lavoro da lei svolto al servizio dello Stato Italiano, l'Amministrazione Italiana (Consolato di Buenos Aires - MAE) hanno continuato a sostenere che non era titolare dei diritti conseguenti, poichè -secondo la loro interpretazione- la Sig.ra Mc Kena avrebbe lavorato alle dipendenze di enti privati. DOMANDA d'OBBLIGO: Vale più la parola (e decisione) del Presidente della Repubblica o quella del Console? Vedremo cosa scaturirà dall'Udienza fissata per il giorno 03 ottobre presso la Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro. Il testo della lettera che ci la Sig.ra Mc Kena ha inviato a Emigrazione Notizie "Mi rivolgo rispettosamente a voi pregandovi di esaminare i fatti qui esposti su un caso (il mio) di palese ingiustizia che si protrae ormai da 15 anni. Ho lavorato come insegnante nelle Scuole Italiane a Buenos Aires in favore della collettività italiana in Argentina ad un livello particolarmente elevato, qual'è quello della cultura e dell'insegnamento, insegnando ininterrottamente dall’anno 1980 fino al 2001 ai sensi della Legge n.327 del 1975, ovvero dei comandi ai sensi del t.u. n. 740 del 1940 e del DPR 215 del 1967, formando parte delle Commmisioni degli Esami di Licenza Media, come insegnante di lettere, sotto la Presidenza di un Commissario Governativo, nominato dal Provveditore agli Studi, con funzione di controllo in sede di maturitá ed inviato dal Ministero degli Affari Esteri, D.P.G.R.C, Ufficio V, nonchè partecipando alle operazioni di scrutinio e a tutti gli atti relativi agli esami, con il beneplacito del Console Generale a Buenos Aires (che all'estero funge da Provveditore agli Studi) e dal Ministero degli Affari Esteri (che esprime il nulla osta agli esami in questione). Ovviamente, gli esami di licenza media e di maturità si svolgono in modo conforme all’ordinamento giurdidico italiano. Risultavo inoltre per lungo tempo iscritta nelle Graduatorie compilate dal Consolato Generale d'Italia per il conferimento delle supplenze ministeriali all'estero per la Classe CL 034A - Abilitati residenti, Titoli culturali 38.50, Titoli didattici 156, Totale 194.50, come risulta da un Telespresso indirizzato al Ministero degli Affari Esteri - D.G.P.C.C Ufficio IV e.p.c. D.G.I.E.P.M. Ufficio II con data 30 novembre 2000, numero protocollo 37/80. Il desiderio di acquisire la cittadinanza italiana fu motivato dal fatto di sentirmi profondamente legata all'Italia e ritenendo che tale acquisizione poteva consentirmi di svolgere in modo più completo ed efficace il mio lavoro di insegnante, permettendomi di rappresentare anche a livello ufficiale la cultura e l'attività educativa italiana. Ed era proprio in forza di detto rapporto di lavoro, con tutti i diritti ed i doveri di un insegnante italiano che chiedevo la cittadinanza italiana in base all’art. 9, comma 1, lettera c) della legge 5.2.1992, n. 91 e dell’art. 7, della legge 18.5.1973, n. 282, potendo dimostrare una prestazione del servizio doppio rispetto al minimo previsto dalla legge. Ma con una nota n. in data 25.8.1993 il Console Generale d’Italia a Buenos Aires mi comunicava che il Ministero dell’Interno aveva confermato l’impossibilità di dare corso alla richiesta di cittadinanza italiana “non ricorrendo, nel suo caso, la fattispecie ora disciplinata dalla suddetta legge". A questo punto non mi rimaneva che ricorrere al Giudice Amministrativo il quale dopo due gradi di giudizio e sette anni di tempo, con decisione n.3178/2000 del 2 giugno 2000 ha finalmente riconosciuto il mio diritto. Nel 2001, con Decreto del Presidente della Repubblica (allora Carlo Azeglio Ciampi) del 19 gennaio 2001 mi è stata concessa la cittadinanza italiana. Il 3 dicembre 2002 ho quindi promosso un ricorso nei confronti del Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca Scientifica per il riconoscimento del diritto all’inserimento in ruolo, ma con sentenza n.7872/2006 del 20.4.2006 il Giudice del Lavoro di Roma ha dichiarato il difetto di giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria Ordinaria, rientrando nella giurisdizione Amministrativa. Nel frattempo in data 10 ottobre 2003 fui convocata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a Roma per il Collegio di Conciliazione ex art. 66 D.Lgs. 165/2001 ma come risulta dal Processo Verbale di mancata conciliazione (Repertorio n. 2032/03) neanche in quell'opportunità ottenne il riconoscimento del diritto all’inserimento in ruolo “ora per allora” alle classi di concorso AO43 e AO50. Le dichiarazioni in merito al mio lavoro fornite dalle Scuole Italiane Cristoforo Colombo e Centro Culturale Italiano in data 19 febbraio 2003 e dal Consolato Generale d’Italia a Buenos Aires con data 24 febbraio 2003 in risposta al Telespresso Ministeriale n. 268/4185/F del 30 gennaio 2003 sono in palese contraddittorietà con il mio lavoro svolto: Negano che il servizio sia stato prestato “alle dipendenze dello Stato”, definendo le suddette Scuole Italiane “Associazioni di diritto privato argentino senza fini di lucro”, equiparabili per analogia agli Enti Gestori dei corsi di lingua italiana organizzati dai CO.A.SC.IT (Comitati Assitenza Scolastica Italiani all’estero) di diritto privato. Da evidenziare però che mi è stata conferita la cittadinanza italiana dal Presidente della Repubblica proprio in virtú del lavoro svolto come insengnate presso le Scuole italiane a Buenos Aires. Tramite il mio legale mi rivolgo allora alla Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro, essendo stato fissata la prossima Udienza per il giorno 03 ottobre prossimo. Sono ormai prossima alla pensione e per i gravi motivi che espongo nei fatti narrati non ho potuto godere della pienezza dei diritti che mi spettano per legge, nè usufruire delle norme previste per gli insegnanti all'estero in materia di diritto al lavoro, perdendo ogni possibilità di inserimento nella Scuola, essendo ormai trascorsi già 15 anni di attesa per vedere riconosciuti i miei diritti. Vi ringrazio per l'attenzione che vorrete prestare al mio caso." Susana Mc Kena Córdoba, 22 settembre 2008 |
L'accordo sottoscritto fra Berlusconi e Gheddafi per il risarcimento dei gravissimi danni inflitti al popolo libico dal colonialismo italiano (specie durante la spietata repressione d'epoca fascista) più che consensi ha suscitato perplessità e strascichi polemici.
Soprattutto a proposito dei suoi contenuti un pò pasticciati e dei costi molto più elevati del previsto. Quasi nessuno, stranamente, ha evidenziato un aspetto banale ma decisivo: il fatto che questo Paese è nelle mani di una leadership che si è autoaccusata degli attentati terroristici contro due aerei civili, nei quali perirono diverse centinaia di persone innocenti.
Ma andiamo con ordine. Cominciamo dai cinque miliardi di euro (in 20 anni) accordati alla Libia. Sono molti, sono pochi, sono una cifra equa?
Di fronte alla gravità dell'eccidio perpetrato nessuna somma può essere considerata risarcitoria, proporzionata. Nessun ragioniere al mondo potrà mai quantificare il valore di una vita umana. Figurarsi l'entità venale di un eccidio del quale poco si è parlato e scritto nel nostro Paese.
Fino al punto d'impedire, in tempi di Repubblica antifascista, la circolazione nelle sale italiane del film libico "Il leone del deserto" che tratta di alcuni episodi della resistenza libica, con al centro
l'eroica figura di Omar Muktar che Graziani fece impiccare alla veneranda età di quasi 80 anni.
Ma in questo caso stiamo parlando di un accordo diplomatico fra Stati e non possiamo, certo, pretendere una contabilità al centesimo. Sono le parti a stabilirne la congruità secondo logiche e criteri talvolta inconfessabili e sempre secondo la "ragion di Stato" che è ben altra cosa
rispetto alla "ragion dei popoli".
C'era chi s'attendeva dalla firma di questo accordo l'immediato blocco delle partenze dalle coste libiche dei barconi adibiti al vergognoso traffico di esseri umani. Registriamo, al momento, che le carrette del mare continuano a partire dalla Libia e ad arrivare, come il solito, a Lampedusa e in altre località costiere siciliane e meridionali.
Aspetti complessi di un rapporto difficile, altalenante fra i due Paesi che si auspica vengano chiariti ed affrontati in sede di ratifica parlamentare.
Un lungo negoziato in cui le parti hanno giocato al rinvio
Semmai vi sono altri problemi, prevalentemente politici, che governo e partiti dovrebbero chiarire. A cominciare dal grave ritardo col quale si è pervenuti all'accordo.
Certo, vi sono state difficoltà negoziali, tuttavia la storia di questa pluridecennale trattativa ci dice che d'ambo le parti si è giocato al rinvio.
Anche perché il negoziato è stato usato in modo improprio, come carta vincente in un gioco un po' cinico nel quale, per mezzo secolo, si sono intrecciati i destini del regime libico con i più concreti interessi italiani d'industrie di stato e di esportatori al seguito.
Il capitolo delle relazioni fra l'Italia e la Jamahjriya (Libia) del colonnello Gheddafi, anche durante l'embargo, è in gran parte da scrivere.
Comunque siano andate le cose, un fatto è certo: la vituperata "prima Repubblica" riuscì a maturare sulla questione libica, come in generale su quelle araba e mediterranea, un orientamento ampiamente condiviso, ben oltre i confini delle maggioranze parlamentari. La politica estera italiana aveva, almeno verso questo scacchiere, un orientamento. Oggi, invece, appare disorientata, tentennante e perciò si affida all'affarismo spicciolo e alle pacche sulle spalle.
Nel caso specifico della Libia, quella politica estera riuscì a tutelare i legittimi interessi nazionali e a mantenere aperto un canale di dialogo con un regime messo alla gogna.
Strano, però! Fino a quando Gheddafi si è dichiarato estraneo alle pesanti accuse di terrorismo fu mantenuto un durissimo embargo contro la Jamahjriya, quando (nel 2003) si è dichiarato colpevole l'embargo è stato revocato. Come se la dichiarazione di colpevolezza fosse la chiave per
aprire le porte di un club esclusivo.
Viene da chiedersi: come mai ora che, finalmente, si è trovato un terrorista reo confesso invece d'isolarlo si fa la fila per incontrarlo, per contrattare affari miliardari?
La corsa per il controllo delle riserve libiche d'idrocarburi
Una bizzarria non solo etica, ma politica visto che contrasta con l'imperativo categorico della lotta al "terrorismo internazionale" divenuta la bandiera dell'amministrazione Bush e di tanti governi europei, fra cui il nostro.
E' chiaro che tale comportamento si spiega con l'esigenza di assicurarsi i rifornimenti di petrolio e di gas e le lucrose commesse generate dalla parte libica. Così com'è evidente il gioco delle grandi potenze (dalla Russia agli Usa, dalla Francia all'Italia) per accaparrarsi addirittura le enormi riserve libiche d'idrocarburi e la loro commercializzazione.
Perciò la coerenza politica, l'etica vanno a farsi benedire e tutti corrono alla fiera di Tripoli.
A queste priorità sono state piegate i ruoli dei governi e della stessa diplomazia che, ormai, sembrano prendere ordini direttamente dalle multinazionali e dai potentati finanziari.
Dentro questo scenario diventano possibili, e accettabili, le più incredibili acrobazie.
L'ultima, la più clamorosa è la contraddizione - prima rilevata- che non impedisce alla "comunità internazionale" di aprire al regime del colonnello Gheddafi dopo che ha ammesso le sue terribili responsabilità e risarcito le famiglie della vittime.
Più che ad una svolta politica siamo di fronte ad un clamoroso controsenso, giacché l'ammissione della colpa non ne annulla la gravità.
Non siamo nel confessionale!
E' stata detta tutta la verità?
Ma questa confessione ha ristabilito la verità? Nessuno può dirlo. Per il momento, dobbiamo accontentarci di queste verità contrattate, mercificate, monetizzate. Tanto a dollari.
A meno che non venga pubblicamente esplicitato ciò che si sussurra sottobanco o si lascia immaginare: ossia la voce che il regime libico sia stato obbligato ad autoaccusarsi. Da chi? per che cosa?
Anche questo è possibile. Perciò i dirigenti libici hanno il dovere di parlare chiaro, d'informare l'opinione pubblica internazionale e soprattutto coloro che, in buonafede e in assenza di prove convincenti, hanno considerato ingiusto l'embargo, a suo tempo decretato, contro il popolo libico.
Fra i tanti, modestamente anch'io che, come membro delle commissioni Esteri e Difesa della Camera dei deputati, ho lavorato, con colleghi di diverso orientamento politico, per mitigare gli effetti di un embargo che pareva studiato più per colpire le buone relazioni commerciali
italo-libiche che il regime di Gheddafi.
Il chiarimento è necessario anche per evitare che la nostra buonafede venga scambiata per qualcos'altro. Confesso che le ammissioni di colpevolezza degli esponenti libici hanno suscitato in me amarezza, delusione, oltre che la più decisa condanna. Mi sento ingannato!
Certo, il mio stato d'animo conta poco o nulla, tuttavia un'ultima cosa desidero dirla.
Nella vita tutti possiamo sbagliare. Ma se noi, ignari della verità, abbiamo sbagliato per eccesso di garantismo, i nuovi amici del colonnello stanno sbagliando, consapevolmente, per eccesso di affarismo.
Agostino Spataro
di Rodolfo Ricci Non ce lo dicono, non ce lo diranno, faranno di tutto per far finta di niente; ma il 7.7.08 è una data storica: in questo giorno, diciannove anni dopo il crollo del socialismo reale, sette anni dopo il crollo delle torri, è finito ufficialmente il pensiero unico neo-liberista, l’ideologia che ha dominato e controllato il mondo nell’ ultimo trentennio e forse qualcosa di più. Con la nazionalizzazione dei due mega-istituti di credito ipotecario dai nomi che ricordano vagamente i cartoons, Fannie Mae e Freddie Mac, finisce l’ideologia del libero mercato, quella imposta dentro e fuori i confini degli USA e dell’Europa, fino alle lande più desolate dei continenti della povertà, nei paesi che dovevano essere sottoposti alla ricetta degli “aggiustamenti strutturali” imposte da FMI e Banca Mondiale che null’altro richiedevano se non la progressiva resa dello Stato e della Politica a vantaggio dell’acquisizione delle risorse e dei beni pubblici da parte del libero meccanismo del mercato che tutto regola e tutto decide come una vasta macchina mistica che “regge il sole e l’altre stelle”. Che il meccanismo naturale del mercato portato al parossismo dagli adepti della scuola di Cicago fosse solo una delle più grandi imposture della storia, lo avevano sperimentato da tempo molte popolazioni del globo; e le innumerevoli gravissime crisi economico-sociali di grandi paesi come il Messico, la Turchia, il Brasile, la Russia, l’Argentina e il permanere nella miseria più nera dei paesi africani ed asiatici che a questa ricetta si sono sottoposte, come ampiamente dimostra Joseph Stiglitz nei suoi lavori, ne davano già ampia dimostrazione. Ma ciò che è accaduto il 7.7.08 ne costituisce il sugello indiscutibile, poiché proviene da uno dei centri fondamentali dell’economia mondiale e dal governo del paese guida del neo-liberismo. Già le nazionalizzazioni delle grandi banche inglesi coinvolte nella crisi dei mutui sub-prime ne avevano fornito un precedente, ma la dimensioni dell’operazione della Federal Reserve sugli istituti Fannie Mae e Freddie Mac, vanno al di là di ogni aspettativa: come ricorda Federico Rampini su “La Repubblica” di ieri, l’iniezione di liquidità operata per evitare il fallimento delle due banche e a cascata dell’intero sistema finanziario USA e mondiale, ma soprattutto l’entità dell’assunzione dei rischi che gli USA si assumono con questa operazione è impressionante e non ha precedenti: si tratta di 5.200 miliardi di Dollari, cioè circa 3 volte l’intero PIL italiano e un terzo del PIL USA. Ciò significa che i cittadini americani, si ritrovano, d’un tratto, con un debito superiore del 30% a quello già abissale del giorno prima. Un debito in mano in gran parte alla Cina, il maggior detentore dei titoli di stato americani. Cosa accadrà ora? Intanto è bene notare che, assieme alla fine dell’ideologia neo-liberista, la neo-inaugurazione della procedura di trasferimento delle perdite o dei rischi ai cittadini, (socializzazione dei costi), segue la fase storica della privatizzazione degli utili, in un susseguirsi di momenti che ricalcano i cosiddetti cicli economici: espansione = privatizzazione degli utili, contrazione o recessione = socializzazione delle perdite. (Ne abbiamo un’ esempio unico nel nostro paese, con l’operazione di “salvataggio” dell’Alitalia del governo Berlusconi, per il quale i due momenti sono addirittura sincronici e in quanto tali disvelano tutta la loro qualità: in una volta sola, si asserisce e si decide come tecnicamente inoppugnabile un’operazione che dà ai privati la possibilità di fare utili e allo Stato e ai cittadini di pagare le perdite passate e future attraverso l’istituzione di “good” and “bad” company). In entrambi i momenti, a rimetterci sono i lavoratori, nella fase ascendente in quanto viene loro estorto gran parte del valore prodotto, nella fase discendente in quanto vengono loro addebitati i costi e i rischi di produzioni e transazioni: l’obiettivo rimane comunque quello di accrescere o di tutelare e rendere inalterati i patrimoni acquisiti delle classi dirigenti. L’alternanza tra le due fasi o cicli corrisponde ad altrettanti momenti di lotta di classe nazionale e internazionale con diversa intensità che si succedono comunque dentro i recinti del sistema capitalistico. Lo Stato e le sue prerogative e funzioni, vengono utilizzate e modificate a seconda della maggiore utilità richiesta nelle due diverse fasi. Altrettanto dicasi per le cosiddette “regole” internazionali che dovrebbero conformare l’azione dei diversi modelli capitalistici nazionali. Possiamo gioire per la fine di un’ideologia, e quindi del fatto che da oggi in poi, il primo che si alzi a sostenere che l’unica via giusta è quella del lasseiz-faire, può essere tranquillamente mandato a quel paese! Non possiamo gioire del fatto che ciò venga pagato di nuovo a carissimo prezzo dai lavoratori e dalle classi subalterne! Inoltre, la storia ci insegna che le conseguenze di una scelta come quella operata il 7 settembre, non resteranno racchiuse dentro i confini degli USA. L’approvvigionamento di capitali e risorse per puntellare un sistema già ampiamente debilitato dalle guerre intraprese negli ultimi due decenni dal paese che aspirava ad inaugurare il nuovo secolo americano, e, parallelamente dai modi in cui è stata sostenuta la fase di sviluppo attraverso l’indebitamento colossale delle famiglie americane (non solo per le case, ma anche per l’acquisto di beni quotidiani attraverso il sistema di credito al consumo, carte di credito, ecc.), la privatizzazione di tutti i beni comuni fino a quelli ambientali, fanno presagire ulteriori effetti a catena e un’ azione di “socializzazione mondiale” dei costi e dei rischi dell’economia americana le cui forme sono al momento difficili da prevedere, ma la cui casistica è storicamente nota. La variabile nuova è quella per cui il palcoscenico degli attori mondiali è cresciuto e non si limita più alle due sponde dell’atlantico e al sol levante. L’altra variabile, tutta politica, è quella per la quale una volta riconfermato e riconosciuto il meccanismo tipico del capitalismo, si apre un grande spazio potenziale di azione che potrebbe riportare i lavoratori, le proprie organizzazioni e la complessa moltitudine degli uomini e delle donne del mondo a giocare il proprio ruolo dopo decenni di latitanza o sudditanza all’egemonia neoliberale. Sapranno e potranno, classi dirigenti allevate in questo trentennio, comprendere e riconoscere la fine di un epoca e l’inizio di una nuova opportunità? Sarebbe auspicabile, ma se è vero che struttura e sovrastruttura sono due sfere molto compenetrate e che si legittimano vicendevolmente, credo che si vada incontro ad un necessario periodo di transizione e ricostruzione: un new deal generalizzato in cui sono chiamate ad emergere e ad aggregarsi le nuove soggettualità. Rodolfo Ricci (Segr. FIEI) |